Ora
la priorità è ridurre la disoccupazione
Di
Carlo Pelanda (15-6-2009)
Mentre la
domanda globale cadeva a picco i governi, tra cui il
nostro, hanno potuto solo contenere l’impatto della recessione. Ma ora il mercato, pur
ferito e zoppicante, comincia rimettersi in moto. Se
il mercato c’è i governi hanno la possibilità di accelerarne la crescita o
frenarla. Mentre dal settembre 2008 al marzo 2009 ben poco di sensato si poteva
scrivere sui giornali per criticare o stimolare i governi, adesso lo si può e deve fare.
Ora la
prossima fase critica è quella dell’aumento della disoccupazione. Tale
priorità, qui anticipata più volte, è stata ben precisata da innumerevoli
fonti. Il summit dei ministri economici del G8 a Lecce, la
recente relazione del Governatore della Banca d’Italia, tutti gli istituti di
ricerca. La Chiesa Cattolica
sta mobilitando la sua influenza morale per prevenire l’impatto sociale che si
annuncia nei numeri tecnici. Ma i governi europei sono
riluttanti a dichiarare l’emergenza nonostante dati che mostrano un incremento
tendenziale medio tra il 2 ed il 3% della disoccupazione nell’eurozona.
Tremonti, in particolare, ha fatto una strana dichiarazione in materia. Non ha
negato, ovviamente, la brutta tendenza, ma ha insistito sul fatto che ci voglia
più analisi (un nuovo sistema di monitoraggio) per precisarla. In generale, i
governi europei temono una pressione per ridurre le tasse allo scopo di incentivare le imprese a licenziare di meno o a tornare ad
assumere. I bilanci pubblici sono già in deficit per i denari usati nei
salvataggi o negli ammortizzatori sociali combinati con la caduta del gettito
conseguente a quella del Pil (-5% tendenziale per l’Italia nel 2009, -1% nel
2008). Hanno paura che si crei un conflitto tra equilibrio di bilancio ed
economia reale nonché uno scontro tra dipendenti
pubblici e privati. Questo, infatti, è il problema. Cerchiamo di semplificarlo.
Una recessione grave genera tre ondate di disoccupazione: (a)
una nel picco di crisi; (b) la seconda nello “strascico” recessivo; (c) la
terza in fase di ripresa quando le imprese riducono i costi per recuperare i
profitti con cui ripagare i debiti ed accendere nuovi investimenti. In
ogni ripresa c’è un periodo di “crescita senza occupazione” proprio perché
scatta la terza ondata. Ora in Italia siamo nel mezzo della seconda. Per
ridurne l’impatto e minimizzzare la terza l’unica
soluzione è quella di ridurre le tasse alle imprese (e nella busta paga dei
dipendenti). La previsione di minori costi fiscali futuri incentiva
l’impresa ad aumentare produzione e forza lavoro. Ma per ottenere tale
effetto bisogna ridurre sostanzialmente costi statali e tasse. Ciò crea due
grossi problemi ai governi. Il primo è tecnico. Se tagliano la spesa pubblica mentre la ripresa è ancora incerta rischiano di
produrre un effetto nuovamente recessivo. Devono quindi trovare il momento
giusto, per inciso “il punto di inversione del ciclo”.
Ma ci siamo vicini. Pù rilevante è quello
politico. Tagliare spesa per detassare significa ridurre il potere dei partiti,
rompere equilibri, colpire rendite, generare conflitti. Da un lato, il governo
potrebbe tranquillamente ridurre di ben il 15-10% (in un quinquennio) la spesa tagliando costi inutili. Dall’altro, tale azione
sarebbe un inferno politico. Ma senza una grande
detassazione avremo più disoccupazione.
Ora il governo sta tentando un compromesso: detassare un po’ le aziende che
investono. Via giusta, ma sarà troppo poco. Con questa recessione non si
scherza. Non c’è margine per soluzioni “politichesi”. Il governo deve decidere
mosse forti ed incisive o se no diverrà parte del
problema e non della soluzione.
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